Non fatevi ingannare dal sole tiepido e dal cielo cristallino: siamo alle porte di settembre e settembre è la stagione del divano, per cui è arrivato il momento di parlare di True Detective.
True Detective è la serie che più si avvicina al concetto di narrativa sullo schermo. Episodi corposi, dialoghi intensi, una fotografia che è totale. True Detective è guardare e leggere qualcosa allo stesso tempo. Se non l’avete ancora visto cercate un divano al più presto in cui sprofondare nelle vicende di Rust Cohle e Marty Hart, poliziotti impegnati in una caccia lunga al serial killer che dura diciassette anni, attraverso paludi, malessere e sette di santoni di provincia.
Come ben sapete da puntate precedenti, sono una persona assolutamente impermeabile alla febbre da telefilm; tant’è che ho iniziato a vedere questa serie una domenica pomeriggio e me la sono puppata tutta in tre giorni, senza soluzione di continuità. Per 72 ore il mio cervello ha vissuto in Louisiana tra sette sataniche e corrotti ubriaconi; il Baffo mi guardava sconsolato scuotendo la testa, “Tu quoque! Avevi detto che avresti smesso con questa dipendenza” e io niente, incollata al divano, telecomando alla mano, sguardo rapito del tipo “Sì,sì, hai ragione, ora vattene che c’è la sigla…ciaoooo“.
Partiamo dalla sigla. Cosa non è la sigla. Secondo me una delle robe più fighe mai viste, esteticamente perfetta ecco. Già solo la sigla la potresti rivedere in loop diecimila volte. Le silhouettes. I colori. Il fuoco. La musica. Uau.
Poi ci stanno loro due. Gli eroi redenti. Gente che una volta intepretava ruoli come:
il parruccone alcolizzato di Hunger Games

Parrucche improbabili all’ennesima potenza
lo spogliarellista cow-boy di Magic Mike:
E oggi invece sticazzi.
A parte il Matteo che pure con l’occhio scavato da influenza intestinale brutta ti fa quel paio di scene in canottiera che ti devi sedere un attimo e bere un bicchier d’acqua per riaverti, pure Cicciobombopanettiere ha un suo perché, con lo sguardo ceruleo da trombatore seriale e quell’attaccamento ossessivo alla moglie eternamente cornuta che poi è Michelle Mohagan (è una serie piena di vips!).

Per scene in canottiera intendevo tipo questa. 😐
Ma al di là di queste motivazioni prettamente ormonali la cosa che veramente ti spiazza in questo serial, e che lo rende bello e coinvolgente è la sceneggiatura. Via ai luoghi comuni sull’amore, e tu e io e loro, basta con la retorica poliziotto buono/poliziotto cattivo, qui si passa a dissertazioni filosofiche sulla futilità della società contemporanea, sul dolore della perdita, sul posto dell’uomo del mondo:
“Io penso che la coscienza umana sia stato un tragico errore dell’evoluzione. Siamo diventati troppo consapevoli di noi stessi” Rust Cohle
Rust – Io mi considero un realista, ok? Ma in termini filosofici sono quello che si dice un pessimista
Hart – Che significa?
Rust – Significa che non sono buono per i party.
Hart – Fattelo dire: non te la cavi un granché neanche fuori dai party.
Se incontrassi Nic Pizzolatto (autore e creatore della serie) gli stringerei la mano con ammirazione; è riuscito a reinventare il genere dell’investigazione che sembrava naufragato in scenari pacchiani alla Csi Miami, tutti chiappe e lustrini, e ci ha restituito il piacere delle indagini alla vecchia maniera, quelle dove non hai paura di sporcarti le mani (vedi Mississipi Burning)
e trascorri i pomeriggi col culo incollato alla macchina attraverso i paesaggi desolati della Louisiana, fumando ottomila sigarette e cercando di battere sul tempo l’oscurità che avanza.
Buona visione, buona stagione del divano.
Sono in piedi davanti al pc che applaudo. Potrò sembrare pazza ai più, ma era doveroso.
Se stai applaudendo a Matteo che si accende una paglia ti posso capire 🙂